il
manifesto - 23 Aprile 2005
La
repubblica all'ombra della differenza
Un saggio sull'opera di Giordano Bruno. Dalla critica
serrata alla teologia dogmatica del cristianesimo all'individuazione di
una critica materialista al concetto allora dominante di sovranità
e del primato della politica come via d'uscita dalle sanguinose e secolari
guerre di religione in Europa
FABIO FROSINI
Giove ha ordinato e imposto alla Legge «che massimamente
verse e vegna rigorosa sopra circa [...] quel tanto ch'appartiene alla
communione degli uomini, alla civile conversazione; a fine che gli potenti
sieno sostenuti dagl'impotenti, gli deboli non sieno oppressi da gli piú
forti, sieno deposti gli tiranni, ordinati e confirmati gli giusti governatori
e regi, sieno faurite le republiche, la violenza non inculche la raggione,
l'ignoranza non dispreggie la dottrina [...] nessuno sia preposto in potestà,
che medesimo non sia superiore de meriti, per virtude et ingegno in cui
prevaglia, o per sé solo, il che è raro e quasi impossibile,
o con comunicazione e conseglio d'altri ancora». Questo passaggio
dello Spaccio della bestia trionfante può essere letto in
chiave di primato della politica come via allo scioglimento dei conflitti
nell'Europa dilaniata dalle guerre di religione; come delineazione di
una comunità discorsiva (la «civile conversazione») capace
di riassorbire i conflitti politico-religiosi in una procedura di continua
mediazione; o come abbozzo di progetto di una nuova politica meritocratica
che, al di là delle differenze delle forme di governo, liberi le
energie civili attraverso un continuo riequilibrio dell'esercizio del
potere rispetto alle capacità individuali. Nella storia delle interpretazioni
del pensiero di Giordano Bruno queste letture sono state tutte proposte,
e nel loro insieme si può contenere l'immagine di un «Bruno
politico».
La riforma dello Zodiaco
L'interpretazione che ne propone adesso Fabio Raimondi (La repubblica
dell'assoluta giustizia. La politica di Giordano Bruno in Inghilterra,
ETS, pp. 502, 30) non è riducibile a nessuna di queste,
non solo perché nei dettagli ne rappresenta una critica stringente,
ma perché poggia su di una lettura nella quale il piano metafisico,
quello morale e quello magico vengono riassorbiti in un'unica prospettiva
ontologica alla luce della quale la dimensione politica
del pensiero di Giordano Bruno risalta strategicamente centrale e in qualche
modo ordinativa di tutto il resto.
Questo volume è dedicato a una ricostruzione, in questa chiave, di
tutte le opere del Nolano fino ai dialoghi italiani, ma il suo baricentro
è senz'altro nello Spaccio, nella «riforma» dello
Zodiaco (dei «valori») che Giove propone al consesso degli dèi
e sulla base della quale dovrà essere riordinata la vita civile.
Ma meglio sarebbe leggere questo libro insieme all'altro, suo pendant
, che Raimondi ha pubblicato nel 1999 (Il sigillo della vicissitudine,
Unipress).
Detto in estrema sintesi, il punto dirimente dell'intero pensiero di Bruno
rispetto alla tradizione è la dissoluzione della tradizionale distinzione
tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata, cioè
del dislivello, sempre riaffermato nella teologia e nella metafisica occidentale
di matrice cristiana, tra ciò che dio avrebbe potuto o potrebbe fare
(creare), e lo spettacolo che il creato di fatto offre. Rifiutando questa
distinzione, e dunque eliminando alla radice ogni domanda circa la volontà
o la personalità di dio, Bruno ripensa l'universo dispiegato come
manifestazione, senza residui, della potenza infinita del «Principio»,
che diviene a sua volta radice inesauribile delle infinite manifestazioni
dalle quali non è in alcun modo separabile (qui è l'averroismo
di Bruno), se non attraverso modalità argomentative che ne devono
salvaguardare l'infigurabilità e l'indicibilità separate.
Ne risulta la riqualificazione, da parte di Bruno, della nozione neoplatonica
di «ombra» in termini materialistici: infatti dio è indifferente
a ogni esistente, perché è la potenza che ha già (nel già
eterno) realizzato tutto; ma proprio per questo è presente in ogni
manifestazione determinata, in ogni momento della «vicissitudine».
La differenza infinita (secondo l'efficace espressione usata da
Raimondi) tra dio e «cosa» determinata è un'eccedenza incolmabile
tra ogni volto e ciò che, per avere tutti i volti, non ne ha nessuno.
Restare sul terreno dell'ombra significa dunque un lavoro infinito di
aggiramento della «Sostanza», di produzione di nomi/verità
di essa. In ogni res singolare si esprime l'«Uno», in
ogni nome determinato è presente/assente il «Nome»
indicibile, il non-nome di dio. Il lavoro del filosofo consiste nel ritrovare
nell'ombra di ciascuna res la potenza di dio, nel nome di ciascuna
cosa l'assenza di nome, cioè la totalità dei nomi, che è
dio, non attraverso un annullamento del finito, bensí attraverso
il rendere trasparente nell'ombra la luce, nel linguaggio ciò che
sta oltre il linguaggio.
Di qui un'ontologia nella quale il vuoto (il pensiero corre ovviamente
a Lucrezio) prevale sul pieno, in cui il principio di pienezza si realizza
come infinito, dunque paradossalmente come differenza.
Il valore assoluto della cosa singolare e il primato metafisico della
vicissitudine rendono, alla luce di questa ricostruzione, perfettamente
comprensibile la crucialità della politica. Questa è infatti
tanto il potere, con il quale il filosofo, alla ricerca della verità,
deve costantemente confrontarsi, quanto il terreno sul quale la potenza
divina trova la propria espressione piú compiuta, perché è
l'unico «luogo» in cui sia possibile la «comunicazione»,
dove cioè il linguaggio possa essere non solo imposizione di «nomi»
alle «cose» (pratica dal potere riavviata sempre di nuovo),
ma, in controtendenza, svuotamento del senso, emergenza del «nucleo
asemantico del linguaggio» e lavoro infinito sul «nome»
affinché torni a esibire la differenza che lo costituisce, ricreando
costantemente quel «vuoto» nel quale solamente «la verità
può eventualmente darsi al linguaggi».
Tra merito e fortuna
Cosí, nel passaggio dello Spaccio riportato all'inizio, e
in particolare nel rapporto strutturale tra «legge» e «civile
conversazione», Raimondi legge una netta presa di distanza tanto
dall'idea di una mediazione di tipo aristotelico (sul modello della Nicomachea),
quanto dall'idea moderna della «sovranità» come legittimazione
nascente dall'esistenza di un sovrano legibus solutus. La reciprocazione
dei ruoli sociali e il rapporto tra merito e fortuna, elementi presenti
già nel Candelaio, non sono qui piú un generico rinvio
alla vicissitudine, ma a quel processo di «comunicazione» che
è la vita stessa dell'«Uno» e che solamente la «repubblica»
- luogo in cui il «comune» diviene forma di vita organizzata
e il «pubblico» prevale sul privato - rispecchia in forma autentica.
Il circolo dei ruoli, il cui movimento è la legge stessa, satura
lo spazio: non rimane luogo per un sovrano che quella legge (o quella
«verità») dovrebbe produrre; tutti sono coinvolti, anche
coloro che, prevalendo «in potestà» per i propri meriti,
primeggiano infine solo perché sanno meglio di altri esporsi
alla «comunicazione».
L'asino della politica
Dei moltissimi spunti offerti dal libro di Raimondi si possono qui infine
raccogliere e rilanciare solo quelli, particolarmente convincenti, relativi
alla Cabala del cavallo pegaseo. Grazie a una ricostruzione dotta
e avvincente della simbolica dell'asino e dei legami di Bruno con la realtà
politica del tempo (in particolare con Sidney), Raimondi ci permette di
individuare nell'asino una sorta di rappresentante del suo intero
pensiero etico-politico fino a quel punto: tanto della critica del cristianesimo,
che blocca la vita della moltitudine riducendola a mera istanza animale
ed elevando l'ignoranza a virtú positiva, quanto della vita del «Tutto»
(l'asino come «anima del mondo»), come istanza di naturalità
che, presente in tutte le forme di vita, ne rappresenta l'alimento e la
rimessa in discussione. L'asino è quindi, nota Raimondi, l'immagine
dell'ignoranza, nella sua irrisolvibile e per questo produttiva
ambivalenza di strumento di controllo della verità e, al contrario,
di liberazione della potenza, come «quel "non" implicito in ogni
sapere (cosí come il vuoto e il non-essere erano impliciti in ogni
fisica), il cuore sempre "aperto" della verità, quello che cioè
impedisce, al di là delle intenzioni umane, la chiusura o la saturazione
della verità stessa», come invece accade «nella forma della
finitizzazione tramite l'innalzamento della "muraglia"» attorno allo
«statuto della cittadinanza nella respublica universalis».
fonte:
http://ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/23-Aprile-2005/art81.html
|