È possibile un dialogo fertile fra letteratura e psicoanalisi?
L’annosa questione, a cui hanno corrisposto di volta in volta, e a seconda degli orientamenti teorici, diverse linee di approccio, è tuttora aperta e controversa.
Tuttavia l’interessamento della psicoanalisi per la letteratura, e l’arte in genere, raramente è riuscito ad andare oltre un’ermeneutica ripetitiva, come tendenza ad interpretare aspetti dell’opera (o della personalità dell’autore stesso) sulla base di simbolismi e categorie di lettura parziali già precostituiti nella teoria stessa, cosa che non ha certo contribuito ad avvicinare le simpatie dei letterati alla psicoanalisi, accusata di patologizzare l’anelito creativo.
Eppure, come notava anche Giorgio Saviane, un letterato o un critico che oggi ignorasse il contributo della psicoanalisi farebbe sorridere, come un fisico che insegnasse senza tener conto di Einstein e della quantistica.
Allora un dialogo è forse possibile in una diversa prospettiva, in una posizione di ascolto reciproco, e, da parte dello psicoanalista, in una interrogazione del discorso letterario, più che in una mera applicazione interpretativa.
Il che non significa rinunciare al proprio «sapere», ma almeno sospendere un certo uso «colonizzante» del sapere in questione.
Ciò comporta appunto un dialogo. È ciò che avviene in questo denso saggio sulla letteratura postcoloniale, assunta nella dizione «new global» non per opportunismi d’occasione, ma nel senso del dischiudersi di un campo di parola che rompe la stessa contrapposizione fra una produzione pretesa storica e legittimata culturalmente (quella occidentale, per lo più) e l’opera cosiddetta ingenua, naif, folkloristica, quando non proprio «primitiva».
Un saggio originale, ove il discorso artistico e il suo contrappunto analitico sembrano suonare in un giusto equilibrio armonico. E non solo per il fatto, già di per sé sorprendente, di una stretta collaborazione fra due autrici di diversa formazione e provenienza: appunto, letteraria l’una, psicoanalitica l’altra.