Fin dai primi secoli della cristianità, il teatro è stato colpito da condanne senza appello. Tertulliano, che agli spettacoli dedica un trattato, lo chiama "sentina d'impurità e di disonestà" e ne mette in luce l'aspetto per lui più sacrilego: l'idolatria che è insita nella duplicazione delle immagini. Né i secoli successivi hanno attenuato il giudizio; soprattutto in ambito riformato, la condanna ha assunto toni violenti, implicando l'attività in sé ma anche chi la praticava e chi la fruiva. Come leggere un'ansia così radicale che peraltro attraversa, con varie accentuazioni, tutti i paesi europei? Quali ne furono i motivi? Non c'era, al fondo di questo "moralismo senza moralità" (l'espressione è usata da
Taviani nel saggio che apre la prima sezione del volume), la consapevolezza dello strano potere del teatro e dunque lo sgomento per la sua straordinaria capacità di sopravvivenza?
Gli autori dei saggi di questo volume provano a dare risposta a queste e altre domande percorrendo il pregiudizio antiteatrale nei diversi modi in cui si manifestò, dal Cinquecento alla fine del Settecento, in vari paesi d'Europa (Italia, Inghilterra, Spagna, Francia, Portogallo), sempre intrecciandosi con le vicende sociali, politiche e religiose di quei paesi.