Nel 381, minato nel fisico e nello spirito, Gregorio Nazianzeno fa ritorno nella natia Cappadocia, lasciando la cattedra episcopale di Costantinopoli. Qualche tempo dopo affida l’acre risentimento per la sconfitta patita ai versi rivolti A se stesso qui raccolti, tradotti e commentati. La sua scrittura, modernissima per alcuni tratti, si frange di continuo, giustapponendo i piani temporali del passato, del presente e del destino ultimo dell’uomo, e alterna nostalgici flashback autobiografici, aspre invettive contro il clero contemporaneo, bollato come ignorante e corrotto, e grida di supplica a Cristo. Traspare da queste poesie l’inquietum cor del personaggio, sempre sospeso tra l’amaro pessimismo della ragione e le certezze luminose della fede, tra le esigenze di una vita sobriamente contemplativa e le urgenze di una Chiesa militante e impegnata. Un messaggio remoto, ma di singolare attualità.