Nell’opera di Giovanni Pascoli amore, morte e poesia definiscono i loro reciproci rapporti in un intricato labirinto di riferimenti testuali e intertestuali. L’interpretazione degli usi onomastici offre un’inconsueta opportunità per attraversarlo.
In poesia la scelta di chiamare per nome fratelli e amici, di negare il nome al padre, alla madre, alla Tessitrice, al Cacciatore, al Soldato di San Piero in Campo o al «morto giovinetto» dell’Aquilone, di inventare alcuni antroponimi, specialmente femminili, come Pia Gigli, Rosa, Viola, Rachele, Nelly, Molly, Zuam Toso, Flor d’uliva, Biancofiore, lascia affiorare un inesplorato potenziale connotativo, che sembra avere proprio nella nominatio la segreta «ragion del suo essere».