Nella Germania di Weimar, tra ideali repubblicani e deriva nazionalsocialista, la figura “mitica” di Thomas Hobbes, il filosofo del Leviatano, diventa l’occasione teorica per la ricostruzione e la rivalutazione della vicenda dello Stato moderno, nell’epoca della sua crisi. Molti sono gli autori – da Tönnies a Dilthey, da Meinecke a Cassirer e Horkheimer – che si confrontano con la lezione del filosofo inglese, con lo scopo esplicito di comprendere la genesi, lo sviluppo e il destino della modernità politica e del capitalismo moderno, tanto che la ricerca storico-filosofica arriva ad assumere una rilevanza direttamente filosofico-politica. Diventa allora legittimo parlare di una vera e propria fortuna di Hobbes in Germania tra le due guerre, senza dimenticare tuttavia che già a fine Ottocento i sociologi, i politologi e i giuristi tedeschi si erano confrontati con le questioni epistemologiche, antropologiche e politiche sollevate dal filosofo del Leviatano intorno ai processi di razionalizzazione, reificazione e massificazione nel mondo moderno. Tra le interpretazioni tedesche di Hobbes svolgono tuttavia un ruolo decisivo quelle offerte da Carl Schmitt e Leo Strauss negli anni Trenta, in piena temperie nazista, quando diventa discriminante, per l’interpretazione della politica moderna, la riflessione sulle categorie di meccanicismo, razionalismo, individualismo e totalitarismo.