La lettura delle pagine levinasiane dedicate a Kant, anche a motivo del carattere occasionale e disorganico dei riferimenti, rivela una certa ambiguità. Da un lato Levinas si sente particolarmente vicino al filosofo di Königsberg, sia per il concetto di imperativo categorico sia per la tesi del primato della ragion pratica; d'altro lato mantiene delle riserve, per la forma ancora troppo razionalistica dell’impostazione kantiana. Collocandosi nel cuore di questa oscillazione interpretativa e attraverso un serrato confronto tra Totalità e infinito e le due grandi opere kantiane sull’etica, la Fondazione della metafisica dei costumi e la Critica della ragion pratica, il presente saggio mostra che il fondamento dell'etica, per entrambi gli Autori, risiede nella struttura asimmetrica della relazione interpersonale e nella legge di alterità che la governa. È infatti innanzitutto a me, prima che ad altri, che si impone il rispetto dell'umanità "nella mia persona e in quella di ogni altro", confermando come alla radice di ogni imperativo e di ogni responsabilità, perfino nei confronti di se stessi, vi sia un'alterità irriducibile. Nonostante le odierne retoriche dell’alterità, dunque, sembra che solo l'altro possa chiedere alla libertà di rinunciare alla propria compiaciuta autonomia, giustificando, in qualità di unico fondamento persuasivo dell’etica, l'imporsi categorico dei suoi imperativi.