Il libro, condotto su esempi novecenteschi di citazione, reinvenzione, corrosione e dissoluzione di forme, codici, linguaggi, vuole essere una prova, misurata sulla concretezza di aspetti e momenti della modernità, dell'inquieta metamorfosi dei generi letterari. Intende soprattutto proporre la non frequente questione dell'interferenza dei generi e delle arti, in casi emblematici di violazione dei confini disciplinari, di "trascrittura", nell’accezione più ampia, e ambigua, del termine, non solo dunque, come sosteneva Testori, di trasformazione dell'opera artistica in opera verbale e della critica d'arte nel genere letterario del romanzo. Da questa prospettiva l'impegno biografico di Salvatore Di Giacomo si risolve nella ricostruzione della rete di relazioni tra la vita di Gemito, le arti, le tecniche, e nell’attribuzione di senso narrativo ai testi plastici e visivi. Invece è la parola letteraria ad agire sulla scrittura e sulla pittura di Licini, e sovente sono le singole lettere dell'alfabeto ad accamparsi, come poesia visiva, nello spazio dei suoi quadri; mentre sono i fantasmi figurativi dell'esperienza pittorica di Testori e del suo impegno di critico d'arte come "questione di vita o di morte" a suggestionare la sua scrittura e, in modo esemplare, i suoi monologhi, che ingoiano ogni distinzione di genere e decretano la fine della tragedia. Esemplificano nel libro la tensione delle avanguardie storiche all'integrazione delle arti le opere futuriste di Cangiullo, che deriva verso lo spettacolo carnevalesco, la pittura e la musica, e di Farfa, che reinventa il grottesco palazzeschiano con il linguaggio grafico e visivo della modernità tecnologica, del design e della pubblicità.