Questo volume si propone di ripensare il ruolo centrale assunto dal cinema nella modernità italiana, leggendolo non come il risultato di una riflessione consapevole e lungimirante di un ceto intellettuale, ma come un insieme di pratiche, applicazioni, ritualità, progetti di carattere più diffuso e partecipativo, attorno alle quali solo in un secondo tempo si sono potute coagulare delle scritture che hanno dato forma all'immaginario tecnologico della nazione. Insieme a Umberto Barbaro, Emilio Cecchi, Aldo De Benedetti, Arnaldo Ginna, gli autori si confrontano allora con gli psicologi (Arnheim, Gemelli, Ponzo, De Abundo), gli architetti (Terragni, Baldessari), gli artisti delle affissioni (Mauzan), con il cinema missionario di padre De Agostini, con il "Cinematografo natante" promosso dal "Giornale del contadino", con il cineamatore conte Mazzocchi, e con l'anti-diva Elettra Raggio. Si delinea così un’evoluzione del rapporto tra l'Italia e la modernità che conosce una prima significativa fioritura nella belle époque (una modernità "progettata" dalle élite culturali e artistiche e che il cinema rende popolare), si riassesta dandosi strutture, mezzi e strategie nel ventennio fascista (la modernità «immaginata» dai media), ed esploderà quasi con prepotenza nel secondo dopoguerra (una modernità praticata nei consumi, e perciò finalmente acquisita). "Davvero il Novecento in Italia esplode con il Manifesto futurista in un universo passatista, diventando poi inesorabilmente fascista?"