Dopo aver fissato nell’edizione Didot il corpus ufficiale delle sue tragedie, Alfieri scrive la propria autobiografia, incentrata sulla tardiva scoperta e sulla progressiva attuazione della vocazione poetica. L’opera si configura come un’epopea linguistica, il cui protagonista, originario di una regione culturalmente periferica e francofona come il Piemonte, supera le difficoltà iniziali per impossessarsi del toscano e degli strumenti dell’officina letteraria, stabilendo la sua dimora nella patria della tradizione poetica: Firenze. Seguendo le indicazioni della Vita, questo saggio esamina gli anni dell’apprendistato di Alfieri, analizzando i primi esperimenti tragici, «nati in veste spuria», e le traduzioni, le postille, gli estratti editi ed inediti, al fine di ricostruire le tappe del percorso che culmina nella Didot. Lo studio dei poeti del canone (Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso), spesso mediato dalla critica settecentesca, si accompagna a quello di modelli rimossi, come Marino, e di antimodelli, come Racine e Metastasio. Sulla composizione della biblioteca interiore di Alfieri, con i suoi scarti e le sue riscritture, agiscono le stesse istanze che permeano la sua produzione tragica, sospesa tra la solennità epica e il ripiegamento lirico, e il suo stile, esito di un difficile compromesso tra equilibrio
classico e dismisura sublime.
Vincenza Perdichizzi è maître de conférences all’Università di Strasburgo. Si occupa di letteratura del Settecento, in particolare dell’opera di Vittorio Alfieri, su cui ha pubblicato, oltre a numerosi saggi in riviste, il volume Lingua e stile nelle tragedie di Vittorio Alfieri (Pisa, ETS 2009), l’antologia Vittorio Alfieri, curata insieme con Guido Santato (Milano, Unicopli 2013), la monografia Alfieri, scritta con Arnaldo Di Benedetto (in corso di stampa, Roma, Salerno editrice).