Sono pochi i lavori di storia dell’archeologia italiana che si avventurano oltre i rassicuranti steccati della disciplina, e ancor più rari i tentativi di impostare una storia della concezione e del ruolo dell’archeologia nella società italiana. Cercando di uscire fuori dal recinto accademico, questo libro prova a inoltrarsi nel drammatico quinquennio 1943-1948, per ricavarne una nuova lettura dell’archeologia fascista e del suo superamento all’interno del processo di transizione dal regime alla Repubblica. Un passaggio qui presentato come un contrastato laboratorio di ricostruzione identitaria dell’Italia e degli italiani a partire dal loro primato classico.
Filo conduttore del racconto sono i processi epurativi dei protagonisti dell’archeologia fascista, ma tra le carte processuali, a rendere la grana del contesto, si mescolano fatti, idee e interpretazioni del dopoguerra italiano. Una fase cruciale per il Paese e la sua archeologia, in cui affondano le proprie radici le diverse politiche del Classico che caratterizzeranno l’Italia repubblicana. Una dimensione ideologica e conflittuale della tradizione che oggi sembra essere tramontata, per l’affermazione sempre più prepotente della tecnocrazia nello studio dell’antico.
Anche su ciò il libro s’interroga.
Dario Barbera ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa ed è stato borsista per un biennio all’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, dove ha avuto modo di condurre la ricerca di cui si presentano qui per la prima volta i risultati. Insieme ad alcuni saggi di archeologia, storia dell’arte antica e storia culturale, ha pubblicato un carteggio inedito tra Federico De Roberto e Corrado Ricci (Pungitopo, 2018) e due guide artistiche su Giulio Romano (Electa, 2019).